Creatività Gioco

24 Ottobre 2025

di Matteo Boca

Non chiamatela ludopatia

Tempo di lettura: 3 minuti

È sabato pomeriggio, hai un po’ di tempo libero e voglia di rilassarti. Apri l’armadio dei giochi, scegli un cooperativo leggero, inviti due amici, apparecchi il tavolo con carte, pedine e qualcosa da sgranocchiare. Ti va di affettare qualche formaggio da accompagnare con una composta di fichi? Si sposa benissimo col clima.
Ecco, questo è quello che nella mia testa è: giocare. E no, non ha nulla a che vedere con quella parola che ogni tanto sentiamo in tv o leggiamo su qualche giornale: ludopatia.

Una parola sbagliata, ma così sbagliata da fare male.
La radice ludo- richiama il gioco, il gioco sano, il gioco autentico: quello che costruisce relazioni, stimola la mente, allena all’empatia e al rispetto delle regole. Quello che insegna a perdere e ad aspettare il proprio turno. Quello che non ti promette di diventare ricco in un lampo, ma ti regala tempo condiviso. È un gioco che cura, non che ammala.

Ludopatia, giusto per mettere un attimo di tecnicismo, non è un termine scientifico. Non compare nel DSM-5, né nella classificazione ICD-11 dell’OMS. Il termine corretto, universalmente riconosciuto, è “Gambling Disorder”, ovvero disturbo da gioco d’azzardo. In italiano, la differenza non è così marcata, ma in inglese si usa il verbo gambling, non gaming.

Quella che oggi viene chiamata ludopatia è in realtà azzardopatia, ed è una dipendenza: una spirale che sfrutta meccanismi psicologici di ricompensa e frustrazione, come la slot che ti fa “quasi vincere” o il gratta e vinci che sembra un gioco ma è solo un’esca. È un’industria che monetizza la speranza, spacciandola per intrattenimento.

E fa danni: in primis economici, ma anche più sottili anche se ugualmente devastanti, quando tocca ambiti familiari e sociali. Secondo il Libro Blu dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, nel 2023 gli italiani hanno speso oltre 136 miliardi di euro in gioco d’azzardo, con una crescita costante negli ultimi dieci anni. Nel frattempo, le occasioni di gioco (come lo consideriamo in questi Spuntini) vengono relegate al tempo libero dei bambini. Come se giocare fosse un’abitudine da perdere crescendo.

Mentre metto in bocca un pezzetto di quel formaggio e composta che abbiamo preparato all’inizio, penso ad un paragone iperbolico: che chiamarla ludopatia è come accusare la dieta mediterranea dei problemi dell’obesità. È come dare la colpa alla lettura se uno è dipendente dallo scroll compulsivo dei social.
Il gioco senza alcuno scopo altro che lo stare insieme e vivere un esperienza, quel gioco che avevo già declinato come “inutile” educa a vincere e a perdere, senza definire sé stessi in funzione del risultato della partita. A differenza di una slot, dove la perdita è reale, continua, e la vittoria sistemica, studiata per permetterti di perdere ancora per un po’.

Non posso essere sicuro (d’altra parte non ne ho le competenze) che il gioco da tavolo o di ruolo possa essere un vero antidoto alla malattia del gioco d’azzardo. La cura e la guarigione da una dipendenza è qualcosa che va affrontato con serietà, seguiti da professionisti. Però mi viene facile pensare che c’è bisogno di più gioco vero. Gioco che non chieda soldi ma tempo. Non solitudine, ma compagnia. Non la speranza di diventare milionari, ma il piacere di ridere, raccontare, fallire e riprovare. Gioco che ti lascia qualcosa addosso, ma mai una ferita.

Le associazioni ludiche sul territorio, ma anche i gruppi di amici fanno una grossa parte, ma forse servirebbe un’educazione al gioco più plurale, un’alleanza tra cultura ludica, educatori, famiglie e, soprattutto, istituzioni, per spiegare che il problema non è il gioco, ma la sua versione tossica.

Spuntino consigliato: un po’ di formaggio con la composta di fichi che aiuta sempre a distinguere le cose buone da quelle che sembrano dolci, ma poi ti fanno stare male.

Scritto da
Matteo Boca