Questa è la storia di un ragazzo che tutti chiamano Demon Copperhead, un eroe dei nostri tempi. Un ragazzo che può contare solo sulla bella faccia ereditata da suo padre, una criniera di capelli color rame, lo spirito aguzzo e il vizio di sopravvivere. La sua voce è quella di una generazione di ragazzi perduti, nati in posti splendidi e maledetti che neanche per un istante concepiscono di abbandonare. Ma Demon è un combattente, un sopravvissuto, come era un sopravvissuto David Copperfield nella sua disgraziata Londra.
Non tutti i talenti servono a farsi notare. Alcuni, anzi, esistono per tenerci in vita
quando ogni altra risorsa sembra esaurita. Il talento di Demon Copperhead è il
disegno, ma nascere in una roulotte della Virginia, figlio di una madre con
tossicodipendenza e senza nessuna rete intorno, significa imparare presto a
considerare superfluo tutto ciò che non serve a sopravvivere. Così, il primo vero
talento che Demon sviluppa è proprio questo: resistere. Farsi invisibile, adattarsi,
incassare.
«Se nessuno si prende cura di te, finisci per pensare che te lo meriti. Ci
metti un attimo a crederci. A uscirne, invece, ci metti tutta la vita». Demon Copperhead (2022), vincitore del Pulitzer e del Women’s Prize for Fiction, è
ambientato tra i monti Appalachi, ma ridurlo a un semplice romanzo di formazione sarebbe fuorviante. È dichiaratamente ispirato a David Copperfield, certo, ma è anche una mappa delle fratture contemporanee dell’America e, insieme, un racconto profondamente personale, capace di tenerezza e crudezza in egual misura.
Demon — all’anagrafe Damon, ma ben presto marchiato da quel soprannome che lo precede e lo definisce — nasce senza padre, da una madre che fatica a restare pulita, in una casa che più che un rifugio è un contenitore precario di assenze, violenza e brutture. Attraversa il sistema degli affidi, incontra adulti che lo ignorano o lo sfruttano, ma non smette mai di osservare, di ragionare, di trasformare ciò che vive in immagini da decifrare e alle quali provare a dare senso.
Ecco allora che il disegno si manifesta, prima di tutto, come un modo per tenersi vivo, per trattenere le cose prima che svaniscano e raccontarle senza farsene travolgere: «Ho scoperto che potevo restare zitto mentre tutti urlavano, e disegnare il mondo finché non mi faceva meno paura».
È il disegno, il suo vero linguaggio, il suo modo per restare in contatto con qualcosa di sé che il resto del mondo sembra voler cancellare. L’autrice, Barbara Kingsolver, riesce in un’impresa complessa: scrivere in prima persona attraverso un adolescente maschio, cresciuto nella povertà estrema, senza mai risultare artificiale o paternalistica. Il suo io narrante è credibile fin dalla prima pagina: parla a tratti con ingenuità, spesso con sarcasmo, crescendo sempre di più con intelligenza e senso critico. La scrittura segue Demon come un respiro interno, non come una costruzione letteraria, e anche l’oralità non appare mero espediente: è una scelta etica e addirittura politica. In un mondo che zittisce ed emargina i ragazzi come lui, lasciargli la parola è già un atto di giustizia.
Anche il contesto in questo romanzo non è solo sfondo, ma risulta sostanziale.
Kingsolver vive da sempre in quella stessa parte della Virginia, la conosce
profondamente, e ne denuncia la realtà con lucidità: è l’America rurale, impoverita e massacrata dalle industrie farmaceutiche che hanno causato l’epidemia di oppioidi, dei bambini dimenticati dai servizi sociali, delle morti per overdose, degli abbandoni scolastici e dello sfruttamento minorile.
«Non sono diventato un drogato. Sono diventato quello che succede a un ragazzo quando lo lasci cadere cento volte di fila». Ma persino dentro a questo mondo infernale c’è la possibilità di resistere e di cercare nuove forme di dignità. Demon è una di queste. Non è esente dalla disperazione, dal dolore, persino dagli sbagli e dalle ricadute, ma il talento che possiede lo tiene agganciato alla propria identità anche nei momenti più bui. Non lo rende visibile agli altri, almeno non subito, ma gli permette di sopravvivere senza annullarsi. «Quello che so è che non puoi fuggire da chi sei, ma puoi decidere come raccontarlo».
Kingsolver non idealizza questo percorso proponendo salvezze miracolose o romanticizzando la sofferenza, tuttavia racconta con precisione ciò che ci tiene in piedi quando tutto il resto si sgretola: una passione che si fa traiettoria mentale e ci ricorda chi siamo.
Kingsolver ha raccontato in un’intervista che l’idea di riscrivere David Copperfield le è venuta rileggendo Dickens durante la pandemia, considerando come le ingiustizieche l’autore inglese denunciava non sono affatto scomparse: semplicemente, si sono trasferite. Il successo del romanzo, tuttavia, non dipende soltanto dalle tematiche socialmente molto sentite, ma dalla sua potenza narrativa. «Ho imparato che il mio nome non era importante. Quello che contava era non farmi cancellare».
Demon Copperhead è la storia di un ragazzo che impara a tenersi saldo anche quando tutto cede intorno. È la storia di una coscienza che si plasma pagina dopo pagina, che si aggrappa al proprio talento e lo fa bastare. E se non tutti hanno la possibilità di disegnarsi addosso un destino, chi ci riesce ne lascia traccia anche per gli altri.
Bevanda consigliata: un caffè americano lungo, bollente, servito in
una tazza un po’ sbeccata ma familiare.
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