Creatività Gioco

7 Luglio 2025

di Matteo Boca

Il diritto di perdere

Tempo di lettura: 3 minuti

Viviamo in una cultura che celebra la vittoria.
Abbiamo normalizzato il successo, mitizzato la vittoria, fatto della performance il nostro metro quotidiano. L’errore è diventato una colpa, il secondo posto un fallimento, la sconfitta una vergogna da nascondere. Eppure, tutti perdiamo! Occasioni, amori, lavori, forze. E nonostante questo, non sappiamo come si fa.

Guardo la mia fetta appena tostata e mi blocco: cambio idea. Visto il tema, questo spuntino è giusto che non contenga “prodotti numero 1 al mondo”. Decido di metterci sopra delle rotelle di banana e chiudere con un “pezzone di cioccolato avanzato dalle uova di Pasqua”.

Torniamo allo slancio della prestazione: come possiamo allenarci alla sconfitta? Al nostro diritto di perdere?
Penso al gioco da tavolo come una piccola ma potente palestra.
Sedersi a un tavolo per giocare significa accettare implicitamente una regola fondamentale: qualcuno vincerà, gli altri no. Eppure, ci si siede lo stesso. Si partecipa, si prova, si sbaglia, si rischia. E alla fine, qualcuno perde, magari addirittura tutti (come nei collaborativi). Perdere, al gioco, è previsto, è legittimo, è protetto; l’errore (per intuizione mancata, per sfortuna, per una valutazione parziale) ci permette di rimetterci attorno al tavolo, con una rinnovata volontà.

E allora ci si chiede: perché nella vita non funziona così? Perché nel gioco possiamo sbagliare senza vergogna, e nel lavoro no? Perché possiamo ammettere un errore a un tavolo, ma non in una riunione? Perché in una partita una figuraccia ci fa ridere e ci tira ancora più dentro al gruppo, ma al ristorante ci viene voglia di andare a casa in anticipo?

Forse perché il gioco nasconde, grazie alla sua caratteristica di non essere reale, una verità scomoda: perdere non è il contrario di crescere. È una delle sue condizioni. E, cosa ancora più importante, ci ricorda che il valore di una persona non dipende da un risultato.

Perdere bene, però, è una competenza che va acquisita e allenata.
Si impara come si impara a leggere o a contare: attraverso la pratica, l’osservazione, il contesto. Serve un ambiente che non giudichi, ma che accolga la sconfitta come parte del gioco. Serve qualcuno che dica: Hai perso, va bene così. Hai giocato bene. Vuoi riprovare? E non parlo necessariamente di avere dei bambini al tavolo, anche un adulto ha bisogno di non sentirsi sminuito, di non essere giudicato da un punteggio. Mi viene sempre in mente una frase che ascoltai anni fa durante una formazione sul mondo della scuola: smettiamo di essere creativi, di provare qualcosa di diverso, nel momento esatto in cui capiamo che saremo giudicati dal risultato e non dal processo.

Cito dalla tesi di Laurea di un’amica: “Dell’errore si vede solo il “costo”, in termini di tempo (perso), denaro (mal speso), aspettative (deluse). Da qui, lo sforzo di molti programmi di orientamento nelle scuole e nelle università viene diretto alla riduzione dell’errore e del disorientamento. Ciò che non si vede è che l’errore può diventare fonte di informazione, conoscenza, motivazione, apprendimento.”

In questo ambito, il gioco da tavolo ha una straordinaria funzione formativa. Ci insegna il valore della sportività, della resilienza, dell’autoefficacia. Chi gioca regolarmente impara a cadere e rialzarsi. A riconoscere quando un errore è proprio, e quando invece è il caso. A gioire per la vittoria altrui senza sentirsi additare come falso. E anche ad arrabbiarsi quando si perde, ma prendendosi cura di quella rabbia, lanciando, a poco a poco, sempre meno pezzi in giro per la stanza e lasciando sempre più spazio alla costruzione della propria consapevolezza.

Guardo il mio panino quasi finito, ridicolo nella forma e nel concetto di usare il cioccolato al posto della fetta di pane superiore. E realizzo che: non abbiamo paura di perdere, abbiamo paura di quello che pensiamo significhi perdere: non essere abbastanza, non contare nulla, deludere le aspettative.
Confondiamo la sconfitta con l’identità. E penso che una società che non ci insegna a perdere sia una società che ci condanna alla paura.

Ma cambiare è possibile. Non con proclami, ma con gesti quotidiani. Possiamo iniziare dal basso, da una stanza, da un tavolo, da una scatola di gioco. E possiamo farlo anche con i più piccoli, che impareranno imitandoci nel gioco e nel come lo viviamo.
Possiamo creare spazi sicuri dove si possa perdere senza perdere la faccia. Ogni partita celebrata nel modo giusto da tutti al tavolo, vincitori e sconfitti, diventerà così un piccolo atto politico contro la paura.

Spuntino consigliato: pane, banana, cioccolato

Scritto da
Matteo Boca