Romanzo

16 Luglio 2025

di Valentina Villani

Il talento della rondine

Tempo di lettura: 4 minuti

Qual è il vero talento? Quello che ti è stato dato o quello che scegli di inseguire, contro tutto e tutti? In una coreografia dove tutto si tiene, Matteo Bussola intreccia movimenti e desideri in un crescendo di emozioni. Perché forse il vero talento è trovare il proprio passo e condividerlo con chi si ama.

Ci sono romanzi che parlano ai più giovani con semplicità ma senza semplificare, e “Il talento della rondine“, l’ultimo lavoro di Matteo Bussola, appartiene proprio a questa categoria discreta e preziosa: una storia che accompagna, suggerisce, apre domande e soprattutto restituisce, con delicatezza e misura, quel senso di disorientamento e insieme di meraviglia che appartiene da sempre all’adolescenza.

Al centro della vicenda ci sono due ragazzi, Brando ed Ettore, che non potrebbero essere più diversi e che pure si attraggono, si osservano, tacitamente si sfidano e si rifrangono l’uno nell’altro, come spesso accade a quell’età in cui l’identità si plasma più facilmente nello sguardo di chi ci sta accanto che non in quello — spesso troppo miope o troppo carico di aspettative — degli adulti.

Brando è nato per la danza: il corpo obbedisce con grazia e naturalezza a ogni movimento, il palcoscenico gli si apre sotto i piedi e tutto sembra comporre intorno a lui un destino già scritto, accuratamente cucito dalla madre che, ex ballerina, ha
investito ogni possibilità e sogno nel talento tanto visibile e riconoscibile del figlio. Ma quando la musica tace e Brando può essere se stesso, disegna. E in quella dimensione, lontano dallo sguardo altrui e dalle altrui aspettative, si sente libero e sincero.

Ettore, al contrario, danza con fatica. Il suo corpo, addestrato per anni alle arti marziali — una scelta del padre — non risponde con la stessa fluidità di quello dell’amico, eppure ogni giorno si impone allenamenti massacranti, si impegna, si
ostina e, anche nella fatica, si rialza. Nessuno si aspetta che eccella, eppure lui continua, poiché la danza, per Ettore, non è tanto un talento quanto un vero amore, una sfida quotidiana, un gesto di resistenza nei confronti del padre, che lo vorrebbe diverso, ma soprattutto di se stesso.

E tuttavia è proprio lui, Ettore, a possedere per uno strano scherzo del destino un dono che non ha cercato: il disegno. Un gesto naturale, istintivo, che gli viene da dentro con quella semplicità che spesso confondiamo con superficialità, ma che invece rivela una connessione profonda e originaria con una parte di sé. E Brando, che disegna con rabbia e con speranza proprio come Ettore danza, ne riconosce il talento con ammirazione e, a tratti, invidia.In questa tensione così viva tra ciò che si sa fare bene e ciò che si desidera fare, tra ciò che ci viene riconosciuto e ciò che ci definisce nel segreto, si muove tutto il romanzo. Scrive infatti l’autore, con una frase tanto semplice quanto disarmante: «Fare con facilità ciò che riesce difficile agli altri, ecco cos’è il talento. Fare con fatica ciò che riesce facile ai talentuosi, ecco cos’è il coraggio».

Con la sua consueta delicatezza, Bussola accompagna i suoi personaggi lungo un percorso che non ha mete definitive né grandi risoluzioni, ma che si nutre invece di piccoli scarti, di cambi di prospettiva, di quella lenta e silenziosa scoperta che non sempre ciò che sappiamo fare meglio corrisponde a ciò che siamo davvero — e che non tutto ciò che amiamo debba per forza diventare un mestiere.

C’è, nel romanzo, una riflessione molto potente e tutt’altro che banale sul significato stesso di talento, e sul modo in cui la nostra società lo racconta e lo pretende: se possiedi un dono, sei quasi obbligato a farne una carriera; se invece insegui qualcosa che ti piace ma che non ti riesce con naturalezza, rischi di essere considerato inadeguato, o peggio, illuso.

In questo senso, il romanzo è anche una presa di posizione gentile ma netta contro l’ossessione per la prestazione, per l’efficienza, per l’eccellenza precoce. E diventa così, in filigrana, un libro politico nel senso più profondo: perché educa alla libertà di scegliere il proprio passo, anche se non è quello più applaudito.

A completare il triangolo della narrazione arriva Mirta, personaggio luminoso, imprevedibile, libero, che scardina gli equilibri e costringe Brando ed Ettore a guardarsi davvero, a togliere le maschere, a lasciare spazio al dubbio. Non è una
figura accessoria, né un semplice catalizzatore narrativo: è presenza viva, scompigliata, piena di intuizioni e di domande, capace di accogliere entrambi senza pretendere nulla in cambio.

Il talento della rondine — titolo che si spiega nel corso del romanzo — è dunque una riflessione delicata e profonda sul crescere, sul coraggio, sul diritto a inseguire ciò che ci somiglia anche se non porta medaglie, anche se ci costringe alla fatica e non soddisfa le aspettative che gli altri hanno su di noi. Questa storia, nella sua apparente semplicità, riesce a parlare con autenticità a chi attraversa l’adolescenza, ma anche a chi cerca di accompagnarla, che sia un genitore, un insegnante, o semplicemente qualcuno che ha ancora memoria di quella stagione in cui diventare se stessi era un gesto urgente, necessario e continuamente rimandato.

Per chi è: per chi ha un talento e non sa che farsene. Per chi scopre che la passione è anche fatica, e a volte non basta.

Da sorseggiare con: una cioccolata calda appena speziata, non troppo dolce, per chi ha bisogno di un conforto delicato e un po’ malinconico, come il luogo in cui questa storia conduce.

Scritto da
Valentina Villani